Big Father: Crick & Watson

Crick & Watson

Scopritori della forma elicoideale del DNA

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Mina Distratis ha detto...

Il 25 aprile 1953 viene pubblicato su «Nature» l'articolo la «doppia elica» di Watson e Crick.
La ricerca rivelava al mondo come il manuale di costruzione di ogni essere vivente fosse scritto su una molecola dalla forma inverosimile: due nastri legati che si rincorrono, avvolgendosi attorno a uno stesso asse, formando una sorta di scala a chiocciola. Una storia fatta di ingenuità e ambizione, di colpi di genio e cinismo. L'acido desossiribonucleico diveniva per sempre e per tutti il Dna. E si apriva l'era genomica.
Watson e Crick erano coppia scientifica fra le più bizzarre. Il primo, che nel 1953 aveva 25 anni, era nato a Chicago, si era iscritto all'università a 15 anni e aveva preso un dottorato a 22. L'altro, britannico, dodici anni più vecchio del collega, il dottorato non lo aveva ancora. Opposti per carattere e formazione, i due avevano in comune spregiudicatezza e ambizione. Entrambi vagabondi del sapere, erano affascinati dalle aree di confine della scienza, e si mostravano capaci di cambiare disciplina con una disinvoltura ammaliante.
Francis Crick (che Watson avrebbe descritto come uno che «parlava più forte e rapido di ogni altro») era un fisico delle particelle. Durante la guerra era stato messo a costruire radar e mine navali. Poi, gli era capitato fra le mani un libretto divulgativo, «Cos'è la vita?». L'autore, Erwin Schrödinger, uno dei maggiori fisici del `900, fra i padri della fisica quantistica, tentava di immaginare come «gli eventi che avvengono all'interno degli organismi viventi possano essere descritti e spiegati nei termini della fisica e della chimica». Ipotizzava che la soluzione al mistero della riproduzione e dell'ereditarietà fosse da cercarsi in un «cristallo quasi periodico»: una struttura complessa, ordinata ma non troppo, capace di immagazzinare le informazioni genetiche. Crick abbandonò la fisica delle particelle per studiare chimica e biologia e dedicarsi a quel compito. Nel 1949 era entrato nel Cavendish Laboratory, a Cambridge, per lavorare sotto la direzione del Nobel Max Perutz.

James Watson, giovanotto di Chicago dall'aria beffarda, aveva storia tutta diversa. Appassionato ornitologo, si era laureato in zoologia. Poi era passato a studiare i fagi, piccoli virus massacratori di batteri. Un giorno del 1951, in un convegno presso la Stazione Zoologica di Napoli, aveva visto un neozelandese di nome Maurice Wilkins, uno dei maggiori esperti del mondo di cristallografia a raggi X, mostrare una confusa, sbiadita fotografia della molecola dell'acido desossiribonucleico. Dicevano alcuni che quell'acido potesse essere il luogo dove erano scritti i geni. Scrive Watson: «Era impossibile che mi togliessi dalla testa una possibile chiave risolutiva del segreto della vita. Mi pareva indubbiamente meglio immaginarmi famoso che invecchiare nella forma di un accademico represso che non ha mai rischiato un pensiero». Detto fatto, il giovanotto abbandonò anatre e virus. Tentò invano di sedurre Wilkins, che lavorava a Londra, per mezzo della sorella, ma riuscì facilmente a trovare un posto a Cambridge. Dove Crick, già innamorato del Dna, cercava un modello per la molecola.

Quando Watson e Crick entrarono in scena, la corsa al Dna era cominciata da tempo. Di quella molecola acida e ricca di fosforo si sapeva non poco. Ma non abbastanza. La si conosceva dai tempi di Mendel: un medico svizzero, Friedrich Miescher, nel 1869 l'aveva isolata dal pus contenuto nelle bende infette e dallo sperma di salmone, e battezzata «nucleina». Poco dopo il tedesco Walter Flemming aveva scoperto i cromosomi, e un suo collega aveva individuato di cosa erano fatti: proteine più acidi nucleici. All'inizio degli anni Cinquanta si sapeva ben più di questo. A partire dal 1900 le teorie di Mendel erano state riscoperte. Le «particelle di ereditarietà» da lui ipotizzate erano state chiamate geni. Si sapeva che i geni erano sui cromosomi e che erano disposti in sequenza. Alcuni erano convinti che fossero fatti di proteine: mattoni della vita per eccellenza, le molecole proteiche erano incredibilmente numerose, complesse, diversificate, ricche di informazione. Ma molti indizi lasciavano pensare che il depositario del genoma fosse invece l'acido desossiribonucleico. Nel 1928 Frederick Griffith aveva ideato un esperimento splendido: si prende una colonia di streptococchi, di un ceppo perfido che causi polmonite. Li si uccide tutti e se ne fa frullato. Il tutto si versa su una colonia di batteri della stessa specie ma di un ceppo innocuo. Si scopre che i batteri innocui e i loro discendenti si trasformano in batteri del tipo letale: un «principio trasformante» è capace di alterare geneticamente i microbi. Sedici anni dopo, il canadese Oswald Avery e i suoi colleghi avevano dimostrato che quel principio era il Dna.

Intanto, erano stati compiuti progressi anche nello studio della composizione del Dna: conteneva molecole di uno zucchero (il desossiribosio), altre di un fosfato e una grande quantità di «basi azotate» di quattro tipi: adenina, timina, citosina, guanina. Nel `49 Erwin Chargaff, biochimico austriaco, aveva aggiunto un dato che sembrò una buffa coincidenza e che invece si sarebbe rivelato tassello fondamentale: in ogni molecola di Dna il numero (gigantesco) di molecole di adenina era esattamente uguale al numero di molecole di timina, e la stessa relazione valeva fra le molecole di citosina e di guanina. Non solo. I fisici avevano sviluppato un metodo geniale per osservare ciò che fino a pochi anni prima era considerato inosservabile: la disposizione degli atomi nelle molecole. Il trucco era lasciar passare raggi X fra gli interstizi delle molecole di struttura cristallina. Dal complesso gioco di ombre e interferenze emerso sulla lastra (diffrazione) si poteva dedurre, grazie alla matematica, la posizione degli atomi.

Nel 1951 a rincorrere la struttura del Dna ci sono figure di formidabile caratura: negli Usa, Linus Pauling, che avrebbe vinto nel 1954 il Nobel per la chimica (e nel 1964 un altro, per la pace) è autorità mondiale nel campo della struttura delle molecole biologiche. È il primo che ha scoperto la forma elicoidale come uno delle impalcature di base delle proteine, e intuisce che il Dna possa contenere qualcosa di simile. In Inghilterra, concorrente di Watson e Crick è lo stesso Maurice Wilkins. Le migliori immagini di Dna del mondo sono prodotte nel suo laboratorio. Ma non è lui a scattarle. Lo fa una ricercatrice dal talento straordinario, che Wilkins sfrutta assai male. Una donna capace, dirà Watson, di produrre «fotografie a raggi X tra le più belle mai scattate in qualsiasi campo della ricerca».

Rosalind Franlin era figlia di un banchiere. Aveva deciso di diventare scienziata a 15 anni, e a 18 era entrata a Cambridge causando una crisi familiare: il padre, convinto che il posto di una donna non fosse in laboratorio né all'università, aveva rifiutato di pagare l'iscrizione. A ventisei anni Rosalind aveva pubblicato già cinque articoli e completato il dottorato. Cominciò a lavorare alla diffrazione a raggi X e rivelò subito abilità e ingegno da fuoriclasse. Fu fra i primi scienziati a usare i raggi X non per studiare cristalli, ma materiali complessi come le molecole biologiche. Un anno prima che Crick e Watson si innamorassero del Dna, Franklin entrava al King's College di Londra, sotto la supervisione di Wilkins. I due non si piacquero affatto: Wilkins era timido e riflessivo. Franklin diretta, assertiva, terribilmente snob. E donna. Franklin considerò sempre lo studio del Dna il proprio progetto di ricerca. Wilkins, al contrario, decise che il Dna era affar suo e trattò la scienziata come un'assistente. Rosalind riteneva Wilkins terribilmente «middle-class», e i colleghi «repellenti». Scrisse: «mi sono organizzata in maniera di non veder nessuno di loro quasi mai. [...] Fra loro non c'è alcuna mente di prima categoria, e neanche una semplicemente buona - in pratica non trovo nessuno col quale possa desiderare di intavolare una discussione, scientifica o su altri argomenti». Discutere coi maschi, d'altronde, non era semplice: le donne del laboratorio non erano ammesse a mangiare con i colleghi in sala mensa.

Franklin modificò i propri macchinari e riuscì a ottenere un fascio estremamente sottile di raggi X. Fu capace, con i suoi studenti, di produrre campioni minuscoli di Dna e sistemarli in fibre perfettamente parallele. Scoprì che la molecola assumeva forme diverse in funzione dell'umidità dell'aria. Mostrò che la molecola di fosfato che fa da impalcatura alla struttura doveva essere sul lato esterno del Dna. E che, almeno nella forma «umida», il Dna doveva avere forma elicoidale: una specie di scala a chiocciola. Tuttavia, rigorosa e prudente all'eccesso, decide di non pubblicare nulla prima di avere prove conclusive.

Il giovane Watson assistette nel 1951 a un seminario della Franklin. Guardò le foto, ascoltò. E, per sua stessa ammissione, capì poco. Tornò a Cambridge con due consapevolezze: che non gli piacevano l'aspetto fisico né lo stile di Rosalind. E che il Dna aveva qualcosa a che fare con un'elica. Basandosi su questo, Crick e Watson costruirono in una settimana un modellino di Dna. Aveva tre filamenti, il fosforo sul lato interno e le basi azotate che spuntavano fuori dalla molecola. Rosalind Franklin, alla quale il modello venne spedito per chiedere consiglio, lo bocciò come «inconsistente coi dati sperimentali». In realtà era così sballato che il capo sezione dei due ricercatori intimò loro di lasciar perdere il Dna e trovare un argomento nel quale fossero competenti. Ma pochi mesi dopo alcuni colpi di fortuna, di astuzia e di genio destinarono Watson e Crick al premio Nobel. Nel luglio del 1952 Erwin Chargaff visitò il laboratorio e espose la sua scoperta di cinque anni prima (della quale, incredibilmente, né Watson né Crick sapevano nulla): nel Dna c'è tanta adenina quanta timina, e tanta citosina quanta guanina. Crick intuì che in quel dato si nascondeva una chiave del rompicapo. Nel frattempo, Max Perutz gli mostrava un rapporto di lavoro del gruppo di lavoro del King's College: i dati della Franklin mostravano una molecola fatta di due filamenti. Watson tornò a Londra a far visita a Wilkins. Il neozelandese aveva nel cassetto una copia di «photograph 51»: la più recente, perfetta delle immagini di Rosalind Franklin, da un campione purissimo di Dna. Senza riflettere, irritato dall'atteggiamento supponente di Franklin e dall'accoglienza gelida che riservava agli ospiti, Wilkins mostrò, a insaputa della ricercatrice, l'immagine ancora non pubblicata. Era splendida. Mostrava la forma di un'elica e forniva la dimensione esatta del diametro della molecola. Watson scriverà in seguito: «nell'istante in cui vidi quell'immagine rimasi a bocca aperta. Molti dei parametri vitali dell'elica erano lì». Anche Crick ammetterà: «senza quei dati la formulazione del nostro modello sarebbe stata altamente improbabile, se non impossibile [...] Temo che noi abbiamo sempre adottato nei confronti di Rosalind un atteggiamento che potrei definire paternalistico, di condiscendenza».

Ma Watson e Crick ebbero alcune intuizioni geniali, che permisero loro di ricomporre i tasselli del rompicapo prima degli altri. Capirono che la molecola di Dna era formata da due catene dalla forma di elica intuita dalla Franklin, ma che correvano in direzioni opposte. Capirono anche che ognuno dei due filamenti era il calco dell'altro: ogni base di timina si legava a una di adenina, ogni citosina si legava a una guanina, il che spiegava in maniera elegante la scoperta di Chargaff. Non solo. Capirono che la complementarità dei due filamenti risolveva anche un altro rompicapo di importanza cruciale: quello di come il Dna potesse copiare se stesso durante la riproduzione delle cellule, garantendo la trasmissione ereditaria dei caratteri.
Il 7 marzo, manipolando filo di ferro e palline, i due avevano in mano un modello per il Dna. La sorella di Watson (la stessa che avrebbe dovuto sedurre Wilkins due anni prima) fu convinta a trascorrere il sabato dattilografando un manoscritto che fu spedito in fretta alla rivista Nature. Il 25 aprile 1953, la rivista inglese usciva con tre brevi articoli sulla struttura del Dna. Il secondo e il terzo erano firmati rispettivamente da Wilkins e i suoi colleghi e dalla Franklin e il suo assistente. Il primo, il più importante, di cui gli altri erano conferma sperimentale, era firmato James Watson e Francis Crick (fu deciso a testa e croce chi dei due sarebbe comparso per primo). Cominciava in tono straordinariamente dimesso: «Desideriamo suggerire una struttura per il sale dell'acido desossiribonucleico (Dna). Tale struttura ha caratteristiche nuove che rivestono un notevole interesse dal punto di vista biologico». Un capolavoro di falsa modestia, se è vero che Crick aveva annunciato ai colleghi di aver «scoperto il segreto della vita».
Wilkins mandò ai due scienziati un breve messaggio sarcastico: «a quanto pare, siete una coppia di belle canaglie». Chargaff (che negli anni successivi diverrà instancabile critico delle tecniche di ingegneria genetica) borbotterà: «fino a pochi mesi fa quei due non avrebbero saputo sillabare la parola adenina...». Pauling, che aveva clamorosamente perso il rush finale incagliandosi in un modello a tre eliche, tacque irritato.



Da quel momento, l'acido desossiribonucleico diveniva per sempre il Dna. Stava per entrare da protagonista nella cultura mondiale, e aprire l'era genomica. Nove anni dopo, nel 1962, il premio Nobel per la fisiologia fu assegnato a Watson, Crick e Wilkins. Rosalind Franklin non c'era. Era morta di tumore nel 1958.